Seconda puntata – Motociclisti da Bar – Restare bambini
La Vespa, la mia famiglia e l’orgoglio di essere italiani.
Il bar è silenzioso, il banco lucido attende il primo caffè. Io sorrido: ogni volta che parlo di moto torno alla stessa idea. Un motociclista resta sempre un bambino.
Per me la moto è come un pallone da calcio. Da piccoli bastavano due pietre per fare una porta, e da lì nasceva un mondo di libertà. In moto succede lo stesso: non importa chi sei, operaio o ingegnere, quando sali in sella diventi un bambino che corre dietro al suo sogno.
Una partita nel deserto
Mi torna in mente la Tunisia, le dune di Nefta, lo stesso scenario che George Lucas aveva scelto per Star Wars. In mezzo al nulla, tirammo fuori un pallone. In un attimo, da motociclisti diventammo bambini: nacque una partita improvvisata, Italia–Tunisia. Correvo con gli stivali da moto, ridevo, urlavo. Una follia totale, ma vera. È questo che amo del viaggiare: la strada ti restituisce quella leggerezza che credevi di aver perso.
Il sogno di un bambino
Da piccolo guardavo passare i motociclisti come fossero cavalieri erranti. Li sognavo, li immaginavo liberi, padroni di strade infinite. Forse è per questo che oggi mi riconosco negli occhi dei bambini che salutano quando passo: quel bambino lì, che alzava la mano per primo, ero io.
Le moto sono diventate la mia vita. E quando dico moto, intendo in senso ampio: BMW, GS, Vespa, non importa. Due ruote bastano per raccontare la libertà.
L’inizio con Gabriella
Ricordo ancora quel giorno davanti a una cabina telefonica. Arrivò una ragazzina minuta su una Vespa PK, la prima con le frecce. La guardai e pensai: sarà mia. E non parlavo di lei… parlavo della Vespa.
Ma insieme alla Vespa arrivò anche lei: Gabriella. Da allora non mi ha più lasciato. È diventata mia moglie, la mia compagna di viaggio, spesso il mio copilota. Non sempre in sella: a volte guida il furgone di supporto nei viaggi.
Lo ripeto sempre: il passeggero non è mai una “zavorra”. È un copilota. Partecipa a ogni curva, sente ogni frenata, si adatta a ogni accelerata. Anche chi sta dietro guida la moto, a modo suo. E io, con Gabriella, ho imparato che la condivisione rende ogni viaggio più grande.
La Vespa di Alice
Oggi nostra figlia Alice vive in California. E appena arrivata lì, la prima cosa che ha fatto è stata comprare una Vespa bianca con la targa californiana.
In mezzo a strade enormi e macchinoni, lei è diventata “quella diversa”. E proprio per questo la gente la saluta, sorride, la riconosce. “Perché davanti a una Vespa tutti sorridono” mi ha detto. E io non potevo che darle ragione.
Quella Vespa è diventata un simbolo. Un filo rosso che parte dalla mia gioventù e arriva fino a lei, dall’Italia alla California.
L’Italia in una Vespa
La Vespa non è solo un mezzo, è un’icona. Nacque quasi per caso, da un ingegnere che detestava le moto ma prese ispirazione da un aereo. Quando Piaggio vide il prototipo disse: “Sembra una vespa.” E così nacque il nome.
Da allora ha raccontato la vita degli italiani. Nei film, nelle pubblicità, nei viaggi di ogni giorno. Io la vedo come un orgoglio: ingegno, creatività, libertà. Non serve attraversare il mondo per sentirsi motociclista. A volte basta un giro dietro casa, basta una strada che costeggia il mare, basta una Vespa.
Orgoglio italiano
Alice me lo ricorda ogni volta. Vivendo a Santa Barbara, a diecimila chilometri di distanza, con quattordici ore di volo tra noi, dice: “Con la Vespa mi sento a casa.”
E ha ragione. Perché l’Italia è questo: saper portare nel mondo qualcosa che non è solo un prodotto, ma un sogno. Certo, oggi tante aziende non sono più nostre, e spesso il tricolore viene messo su oggetti che italiani non lo sono davvero. Ma resta il fatto che la nostra identità è unica.
Io lo so, e ne sono orgoglioso.
Il caffè arriva sul banco. Lo bevo in un sorso e penso che, in fondo, bastano due ruote — una moto o una Vespa — per continuare a sentirmi quel bambino che corre dietro a un pallone.
Peppe pagano
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