Mettere nero su bianco pezzi della propria vita non è per niente facile, per me: trovo più semplice parlarne, raccontarli, avere uno o più interlocutori innanzi a me, osservarli, capire se ciò che sto raccontando li interessa oppure no, far nascere uno scambio di opinioni, un confronto o, perché no, a volte anche una specie di “recita” reciproca. Insomma, raccontare a voce, improvvisare, magari anche romanzando un po’ è il mio forte, specie davanti a qualche bella birra condita da sane risate.
Ma veniamo al dunque, cioè a questi fogli bianchi che mi provo a riempire. Il sogno delle due ruote è sempre vissuto dentro di me, ci ho fantasticato fin da bambino, quando mi coprivo la testa con un lenzuolo e immaginavo di esplorare terre e posti sconosciuti, e non ho ancora smesso. Poi ne avevo anche un altro di sogni: andarmene in giro per il mondo, o addirittura, a bordo di un’astronave, per altri mondi tra le stelle, verso galassie lontanissime, per il solo gusto di viaggiare, di scoprire. Sogno che adesso non ho più. Ma in ogni modo sempre via volevo andare, via da un mondo che non gradivo verso altri da esplorare.
Il perché lo sapevo e anche no. Mio padre è sempre stato duro con me, aveva vissuto la guerra, privazioni di ogni genere, non accettava l’idea che il mondo potesse cambiare. Forse non accettava che io fossi diverso da lui e io lo ricambiavo non accettando l’idea di poter o dover diventare come lui. In ogni modo eravamo negli anni Sessanta/Settanta, c’erano i Beatles, i Rolling Stones, il boom economico, la ricostruzione, un entusiasmo generale che adesso è anche difficile da immaginare, ma il mio destino sarebbe stato lavorare. Lavorare e basta. Da subito, addirittura all’età delle elementari!
Iniziai infatti come garzone nella carrozzeria di mio zio Mario, più giovane di mio padre e di idee più aperte, più evolute. Idee che mi rinsaldarono nelle mie convinzioni e crearono una frattura ancora più grande tra me e mio padre. Poi, come tanti, la prima bicicletta, una Cross 70 addirittura a tre rapporti con la quale consumai le strade del quartiere e non solo. Mi sentivo già grande e sognavo a più non posso, mi piaceva immaginarmi come un novello John Wayne con la bici al posto del cavallo. Poi però tornavo a casa la sera e spesso le buscavo, pareva che mio padre volesse solo far finire il film, il mio film.
Col motorino, poi, ancora peggio. Aprivo bocca e giù sberle. I miei coetanei giravano col Ciao, il Vespino, qualcuno addirittura con l’Harley 125 (erano i tempi di Happy Days, Fonzie, la famiglia Cunningham), ma per me strada era chiusa, sbarrata: motorino nisba! Neppure mia madre riuscì a intercedere per me. E allora ecco la mia prima ribellione: il motorino me lo sarei comprato da me, coi soldi che io stesso avrei guadagnato e, per una volta, mio padre non disse no (forse pensava che non ce l’avrei mai fatta).
E in effetti non fu per niente facile. Il Gilera CB1 che volevo costava 450.000 lire e sembrava del tutto fuori dalla mia portata. Ma io lo guardavo tutte le mattine mentre andavo a scuola e ne ero follemente innamorato: quello volevo e quello avrei avuto!
Quando arrivò l’estate mi rimboccai le maniche: lavorai per un mese come garzone di un bar ma raggranellai 50.000 lire appena. Ci voleva ben altro o mio padre l’avrebbe avuta vinta.
Poi, all’improvviso, il colpo di fortuna. Un tale, che aveva una distribuzione di acque minerali, cercava un ragazzo di fatica. Io non è che a quell’età fossi così robusto ma la voglia di motorino era tanta e anche quella di mettere su un po’ di muscoli, così accettai di buon grado.
Per dodici ore al giorno, salvo una pausa pranzo di trenta minuti, scaricai e ricaricai camion pieni di casse di acqua minerale, immagazzinandole e ridisponendole poi secondo gli ordini dei clienti, quasi sempre a mano salvo qualche sporadico uso del muletto. A sera, poi, dovevo pure riordinare e spazzare il cortile: un mazzo tanto che però mi costò relativamente, vista la motivazione che mi spingeva, e aumentò non poco la mia autostima e anche i miei muscoli. Un mazzo tanto che mi fruttò 50.000 lire a settimana invece che a mese, soldi che misi con orgoglio, ma anche con un po’ di trepidazione, nelle mani di mio padre quando andammo a comprare il mio motorino. Ma aveva promesso e non poteva tirarsi indietro: quando uscii dal concessionario col mio CB1 nuovo di zecca mi sentii il ragazzo più felice del mondo.
Un mondo nuovo, in effetti, si apriva davanti a me. Ogni giorno andavo in giro, col sole o con la pioggia, col caldo o col freddo, ogni giorno era per me un’avventura nuova. Un’avventura lunga al massimo tre litri, a quei tempi non c’erano contachilometri sui cinquantini, e a volte mi toccava pure soffiare nel serbatoio per farne uscire le ultime gocce di miscela, ma bastava e avanzava per allora, anche se non sempre.
Non bastò, ad esempio, quella volta che andai su per l’Etna convinto che, quando fosse finita la benzina, sarei potuto tornare a casa contando sulla sola forza di gravità. Benedetta inesperienza, quanto mi toccò spingere! Tornai a casa che era notte fatta e mio padre mi sequestrò il motorino. Mi ci volle qualche settimana e l’intercessione di mia madre per riaverlo.
Quel motorino fu anche testimone e strumento dei miei primi amori: la prima fidanzatina da poter portare, le canzoni di Claudio Baglioni cantate a squarciagola nelle discese fino al mare, le curve in successione, l’una dopo l’altra, come giri in giostra da urlare per la gioia. Il giovanile incanto, insomma, quello che a quasi sessant’anni diventa mito e nostalgia ma che per me non si è ancora infranto.
Ancora oggi, io, quando salgo in moto, provo quasi le stesse sensazioni di allora. Faccio anche le stesse cose di allora, ascolto le stesse identiche canzoni (qualcuno dice che non dovrei esserne così orgoglioso ma io me ne frego). Io ho voglia di viaggiare, di scoprire, di partire e poi tornare e poi partire ancora. Per questo, dai e dai, alla fine sono riuscito a farne il lavoro della mia vita. Un lavoro che non mi costa fatica e che anzi me ne costa quando non lo posso fare. Un lavoro che è una passione e un divertimento; passione e divertimento che mi sforzo di trasmettere a tutti quelli che viaggiano con me.